La guida di Clara

Carla
La guida di Clara

Visite turistiche

Il tour delle cale lungo la costa è un'esperienza imperdibile, godrete di panorami e spiagge mozzafiato, non accessibili via terra. Potete prenotare un tour privato oppure in motonave. I tour partono dal porto turistico di Santa Maria Navarrese. Per evitare code in loco potete acquistare i biglietti online
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Cala Goloritze
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Il tour delle cale lungo la costa è un'esperienza imperdibile, godrete di panorami e spiagge mozzafiato, non accessibili via terra. Potete prenotare un tour privato oppure in motonave. I tour partono dal porto turistico di Santa Maria Navarrese. Per evitare code in loco potete acquistare i biglietti online
Un ampio pianoro ricoperto da una colata pleistocenica di scura lava basaltica, cromaticamente risaltante nel contesto biancastro delle circostanti rocce calcaree e separato dal mare da una cresta di ripide montagne. Si presenta così, l’altopiano di Golgo, a chi vi giunge dopo aver percorso gli 8 km di strada che lo separano dal centro abitato di Baunei. Le potenzialità turistiche dell’altopiano furono intuite dai baunesi già negli anni Settanta; risale infatti ad allora la costruzione della prima struttura con finalità turistiche: il ristorante tipico “Golgo”, ancora oggi operativo, costruito riprendendo le caratteristiche architettoniche dei tradizionali “coiles” del Supramonte. La strada che porta a Golgo si stacca dalla Via Orientale Sarda nei pressi della chiesa di San Nicola, e nel primo tratto coincide con la Via San Pietro. Una spettacolare serie di tornanti consente di superare il costone roccioso che sovrasta il paese, e una volta raggiunti i 630 metri di altitudine, si può godere di una vista mozzafiato, che spazia dai monti del Gennargentu al Golfo di Arbatax. In questo punto, a fianco della strada, è stata attrezzata una rampa di lancio utilizzata dagli appassionati di parapendio. Dopo aver scollinato, in località “Su Idìle”, dove d’inverno si forma un enorme pozzanghera (in sardo “idile” = “luogo acquitrinoso”), la strada prosegue in leggera pendenza, verso l’entroterra. La prima sterrata sulla destra porta ad una sorta di terrazza panoramica, che regala una visuale a strapiombo sul centro abitato, detta “Belvedere de Santu Franciscu”, poiché negli anni Ottanta si progettò di collocarvi una statua di San Francesco (progetto ben presto abbandonato, e mai più preso in considerazione). Proseguendo sulla strada asfaltata, lungo la “Bia Maore” (“la via principale”) si arriva ad un bivio che a destra (strada sterrata) porta verso la zona di “Monte Ginnirco” (811 m.), servita da una fitta rete di sterrate utilizzate dai tanti pastori che ancora oggi frequentano la montagna. Restando sulla “Bia Maore” si raggiunge il cuore dell’altopiano, oggi famoso soprattutto per una straordinaria voragine, chiamata in sardo “Su Sterru”, fra le più profonde d’Europa. La strada asfaltata termina a poca distanza dalla chiesa campestre dedicata a San Pietro, non molto lontano da “Su Sterru”, dalle vasche basaltiche chiamate “As Piscinas” e dall’inizio del sentiero che porta a “Cala Goloritzè”. Un vero e proprio concentrato di attrazioni turistiche in pochi chilometri quadrati. Nell'Altopiano di Golgo potrete visitare As Piscinas, Su Sterru (la voragine), il Nuraghe delle Mensole, la Maschera di Pietra, i Pozzi nuragici, il Nuraghe Orgodùri, la Chiesa di San Pietro e il Nuraghe Coa e Serra.
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Altopiano di Golgo
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Un ampio pianoro ricoperto da una colata pleistocenica di scura lava basaltica, cromaticamente risaltante nel contesto biancastro delle circostanti rocce calcaree e separato dal mare da una cresta di ripide montagne. Si presenta così, l’altopiano di Golgo, a chi vi giunge dopo aver percorso gli 8 km di strada che lo separano dal centro abitato di Baunei. Le potenzialità turistiche dell’altopiano furono intuite dai baunesi già negli anni Settanta; risale infatti ad allora la costruzione della prima struttura con finalità turistiche: il ristorante tipico “Golgo”, ancora oggi operativo, costruito riprendendo le caratteristiche architettoniche dei tradizionali “coiles” del Supramonte. La strada che porta a Golgo si stacca dalla Via Orientale Sarda nei pressi della chiesa di San Nicola, e nel primo tratto coincide con la Via San Pietro. Una spettacolare serie di tornanti consente di superare il costone roccioso che sovrasta il paese, e una volta raggiunti i 630 metri di altitudine, si può godere di una vista mozzafiato, che spazia dai monti del Gennargentu al Golfo di Arbatax. In questo punto, a fianco della strada, è stata attrezzata una rampa di lancio utilizzata dagli appassionati di parapendio. Dopo aver scollinato, in località “Su Idìle”, dove d’inverno si forma un enorme pozzanghera (in sardo “idile” = “luogo acquitrinoso”), la strada prosegue in leggera pendenza, verso l’entroterra. La prima sterrata sulla destra porta ad una sorta di terrazza panoramica, che regala una visuale a strapiombo sul centro abitato, detta “Belvedere de Santu Franciscu”, poiché negli anni Ottanta si progettò di collocarvi una statua di San Francesco (progetto ben presto abbandonato, e mai più preso in considerazione). Proseguendo sulla strada asfaltata, lungo la “Bia Maore” (“la via principale”) si arriva ad un bivio che a destra (strada sterrata) porta verso la zona di “Monte Ginnirco” (811 m.), servita da una fitta rete di sterrate utilizzate dai tanti pastori che ancora oggi frequentano la montagna. Restando sulla “Bia Maore” si raggiunge il cuore dell’altopiano, oggi famoso soprattutto per una straordinaria voragine, chiamata in sardo “Su Sterru”, fra le più profonde d’Europa. La strada asfaltata termina a poca distanza dalla chiesa campestre dedicata a San Pietro, non molto lontano da “Su Sterru”, dalle vasche basaltiche chiamate “As Piscinas” e dall’inizio del sentiero che porta a “Cala Goloritzè”. Un vero e proprio concentrato di attrazioni turistiche in pochi chilometri quadrati. Nell'Altopiano di Golgo potrete visitare As Piscinas, Su Sterru (la voragine), il Nuraghe delle Mensole, la Maschera di Pietra, i Pozzi nuragici, il Nuraghe Orgodùri, la Chiesa di San Pietro e il Nuraghe Coa e Serra.
La piccola chiesa campestre anticamente intitolata a San Giovanni, dove ogni anno, il martedì dopo la Pentecoste, si tengono i festeggiamenti in onore di Santa Lucia (a cura dei cosiddetti “parenti della santa”), è la chiesa baunese più lontana (oltre 12 km) dal centro abitato. A vederla oggi, circondata da un fitto bosco, a valle dell’Orientale Sarda, è strano pensare che fino a qualche secolo fa era la chiesa parrocchiale di un villaggio, èltili, scomparso improvvisamente nel Cinquecento. Tracce degli ultimi abitanti dell’insediamento sono rimaste nei registri parrocchiali di Baunei (dove il Rettore Emanule Lai, nel 1876, annotò di aver recuperato ad àrdali un vestito da bambino che la popolazione locale riferiva essere appartenuto ad una famiglia di èltili) e in quelli di Urzulei (dove, per l’anno 1606 è registrato il decesso di un certo Joan Trudu de Eltili). Il territorio del villaggio (censito ancora, sotto gli spagnoli, nel 1504, ma scomparso dal registro delle imposte già nel 1527) secondo la tradizione si estendeva fino alla spiaggia di Cala Luna. In realtà è stato accertato che i confini di èltili arrivavano fino a circa 8 km dalla famosa spiaggia. Forse il villaggio fu abbandonato in seguito ad una pestilenza, come spesso è accaduto nella storia dell’Isola, forse era troppo debole demograficamente per resistere agli assalti degli abitanti dei paesi vicini; di sicuro si sa che ad un certo punto il territorio di èltili venne inglobato in quello di Baunei. I baunesi sono soliti collegare questa importante acquisizione territoriale alla leggenda di “Maria Eltiledda”: secondo la leggenda, una certa Maria di èltili, trovandosi ad essere l’unica sopravvissuta ad una pestilenza devastante, decise di incamminarsi verso nord, in direzione di Urzulei, per chiedere ospitalità in cambio delle terre appartenenti al suo villaggio. Stando alla leggenda, però, in località “Su ponte ’e sa pruna” (“il ponte della prugna”) Maria incontrò un capraro baunese al quale raccontò la sua triste vicenda, e la sua intenzione di rifugiarsi ad Urzulei. Il pastore convinse Maria ad andare con lui a Baunei, dove si stabilì in una casa fuori paese, nella zona dove oggi si trova il rione di Monte Colcau. Secondo la tradizione fu così che Maria donò a Baunei tutto il territorio di èltili. Si racconta che Maria Eltiledda fosse un po’ strana, perché ogni mattina, al sorgere del sole, usciva di casa per pregare, ad alta voce, in una lingua incomprensibile. Probabilmente pregava in arabo, perche Maria Eltiledda, da giovane, era stata rapita dai saraceni.
Chiesa di Santa Lucia e San Giovanni Eltili
Strada Statale 125 Orientale Sarda
La piccola chiesa campestre anticamente intitolata a San Giovanni, dove ogni anno, il martedì dopo la Pentecoste, si tengono i festeggiamenti in onore di Santa Lucia (a cura dei cosiddetti “parenti della santa”), è la chiesa baunese più lontana (oltre 12 km) dal centro abitato. A vederla oggi, circondata da un fitto bosco, a valle dell’Orientale Sarda, è strano pensare che fino a qualche secolo fa era la chiesa parrocchiale di un villaggio, èltili, scomparso improvvisamente nel Cinquecento. Tracce degli ultimi abitanti dell’insediamento sono rimaste nei registri parrocchiali di Baunei (dove il Rettore Emanule Lai, nel 1876, annotò di aver recuperato ad àrdali un vestito da bambino che la popolazione locale riferiva essere appartenuto ad una famiglia di èltili) e in quelli di Urzulei (dove, per l’anno 1606 è registrato il decesso di un certo Joan Trudu de Eltili). Il territorio del villaggio (censito ancora, sotto gli spagnoli, nel 1504, ma scomparso dal registro delle imposte già nel 1527) secondo la tradizione si estendeva fino alla spiaggia di Cala Luna. In realtà è stato accertato che i confini di èltili arrivavano fino a circa 8 km dalla famosa spiaggia. Forse il villaggio fu abbandonato in seguito ad una pestilenza, come spesso è accaduto nella storia dell’Isola, forse era troppo debole demograficamente per resistere agli assalti degli abitanti dei paesi vicini; di sicuro si sa che ad un certo punto il territorio di èltili venne inglobato in quello di Baunei. I baunesi sono soliti collegare questa importante acquisizione territoriale alla leggenda di “Maria Eltiledda”: secondo la leggenda, una certa Maria di èltili, trovandosi ad essere l’unica sopravvissuta ad una pestilenza devastante, decise di incamminarsi verso nord, in direzione di Urzulei, per chiedere ospitalità in cambio delle terre appartenenti al suo villaggio. Stando alla leggenda, però, in località “Su ponte ’e sa pruna” (“il ponte della prugna”) Maria incontrò un capraro baunese al quale raccontò la sua triste vicenda, e la sua intenzione di rifugiarsi ad Urzulei. Il pastore convinse Maria ad andare con lui a Baunei, dove si stabilì in una casa fuori paese, nella zona dove oggi si trova il rione di Monte Colcau. Secondo la tradizione fu così che Maria donò a Baunei tutto il territorio di èltili. Si racconta che Maria Eltiledda fosse un po’ strana, perché ogni mattina, al sorgere del sole, usciva di casa per pregare, ad alta voce, in una lingua incomprensibile. Probabilmente pregava in arabo, perche Maria Eltiledda, da giovane, era stata rapita dai saraceni.
Un’antica leggenda lega il nome di questa località ad una Principessa arrivata dalla lontana Navarra in Spagna… forse scacciata o fuggita dal padre Garcia IV, Re di Navarra, la giovane ed il suo seguito, intorno all’anno 1052 sfuggì ad una temibile tempesta e trovò scampo e riparo nella sicura baia protetta dai venti del nord. All’ombra di millenari Olivastri, come ringraziamento alla Madonna per lo scampato pericolo, fece costruire la bianca Chiesetta tuttora visitabile a poche centinaia di metri dalla spiaggia centrale del paese. Oggi Santa Maria Navarrese è uno dei centri turistici della costa orientale più amato e frequentato dai vacanzieri, sorta di buen retiro per chi non è alla ricerca di mondanità e “vip watching”. Santa Maria Navarrese è un distillato di colori: il verde brillante dei millenari olivastri, dei bagolari e dei carrubi che decorano e impreziosiscono la centrale Piazza Principessa di Navarra; il bianco dell’antica Chiesetta che si taglia sull’azzurro intenso del mare del Golfo di Arbatax.
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Santa Maria Navarrese
Lungomare Monte Santo
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Un’antica leggenda lega il nome di questa località ad una Principessa arrivata dalla lontana Navarra in Spagna… forse scacciata o fuggita dal padre Garcia IV, Re di Navarra, la giovane ed il suo seguito, intorno all’anno 1052 sfuggì ad una temibile tempesta e trovò scampo e riparo nella sicura baia protetta dai venti del nord. All’ombra di millenari Olivastri, come ringraziamento alla Madonna per lo scampato pericolo, fece costruire la bianca Chiesetta tuttora visitabile a poche centinaia di metri dalla spiaggia centrale del paese. Oggi Santa Maria Navarrese è uno dei centri turistici della costa orientale più amato e frequentato dai vacanzieri, sorta di buen retiro per chi non è alla ricerca di mondanità e “vip watching”. Santa Maria Navarrese è un distillato di colori: il verde brillante dei millenari olivastri, dei bagolari e dei carrubi che decorano e impreziosiscono la centrale Piazza Principessa di Navarra; il bianco dell’antica Chiesetta che si taglia sull’azzurro intenso del mare del Golfo di Arbatax.
La spiaggia di “Tancau” comincia a sud degli scogli di “Birissi”, che dal 1849 segnano il confine tra i territori comunali di Baunei e Lotzorai, e termina alla foce del “Rio Pramaera”, un chilometro e mezzo più a sud. La spiaggia prende il nome dal piccolo borgo (circa 200 residenti) frazione di Lotzorai, cresciuto dagli anni Ottanta in poi, di pari passo con S. Maria Navarrese. Il termine “tancau” in sardo significa “chiuso”, e designa un “territorio privato chiuso con recinzioni”, (un sinonimo è “tanca”), una tipologia di proprietà che in molti paesi della Sardegna dove la maggior parte delle terre era di proprietà collettiva e soggetta ad uso civico, apparve solo nel 1820, con l’ “Editto delle Chiudende” promulgato dai governanti piemontesi con l’intento di stimolare lo sviluppo dell’agricoltura. A Baunei e S. Maria Navarrese, però, nonostante l’Editto del 1820, non si chiuse neppure un metro di terra. Nei vicini paesi della pianura, invece, come Lotzorai, Girasole e Tortolì, centinaia di ettari divennero di proprietà privata. A Lotzorai, per la verità, piccoli appezzamenti privati esistevano già nel Settecento e negli anni successivi all’Editto furono poche le zone chiuse ex novo. Una di queste, di notevole estensione, secondo quanto riportato dallo studioso Luca Porru in una recente pubblicazione (2006) sulla storia del paese, fu proprio quella di “Tancau”. “Il Consiglio Comunitativo di Lotzorai, - scrive Porru - si occupò dell’applicazione dell’editto relativamente tardi. Nel 1827, infatti, con l’ausilio di cinque periti nominati per l’occasione, considerando che il territorio comunale era assai piccolo e nessuno sembrava particolarmente interessato a chiudere terreni, di chiudere solamente la regione detta Tancau, che era già da secoli una zona di pascolo privilegiato. Sono ancora oggi visibili i resti dei muretti a secco originali nella zona che, superata la località di Orzudeni, arriva a Tancau costeggiando la strada litorale per Santa Maria Navarrese ”. Pertanto appare plausibile che a partire da quegli anni tutta la zona oggi a cavallo del confine tra Lotzorai e Baunei, caratterizzata da terreni “chiusi”, sia stata genericamente chiamata “Tancau”. La proprietà privata a Santa Maria nascerà più tardi, alla fine dell’Ottocento, con la “lottizzazione di Ulbai e Masolce”. Solo allora i baunesi inizieranno ad affacciarsi sul mare dopo secoli di isolamento sulle montagne. E solo allora inizierà la storia della borgata di Santa Maria Navarrese.
Tancau sul Mare
La spiaggia di “Tancau” comincia a sud degli scogli di “Birissi”, che dal 1849 segnano il confine tra i territori comunali di Baunei e Lotzorai, e termina alla foce del “Rio Pramaera”, un chilometro e mezzo più a sud. La spiaggia prende il nome dal piccolo borgo (circa 200 residenti) frazione di Lotzorai, cresciuto dagli anni Ottanta in poi, di pari passo con S. Maria Navarrese. Il termine “tancau” in sardo significa “chiuso”, e designa un “territorio privato chiuso con recinzioni”, (un sinonimo è “tanca”), una tipologia di proprietà che in molti paesi della Sardegna dove la maggior parte delle terre era di proprietà collettiva e soggetta ad uso civico, apparve solo nel 1820, con l’ “Editto delle Chiudende” promulgato dai governanti piemontesi con l’intento di stimolare lo sviluppo dell’agricoltura. A Baunei e S. Maria Navarrese, però, nonostante l’Editto del 1820, non si chiuse neppure un metro di terra. Nei vicini paesi della pianura, invece, come Lotzorai, Girasole e Tortolì, centinaia di ettari divennero di proprietà privata. A Lotzorai, per la verità, piccoli appezzamenti privati esistevano già nel Settecento e negli anni successivi all’Editto furono poche le zone chiuse ex novo. Una di queste, di notevole estensione, secondo quanto riportato dallo studioso Luca Porru in una recente pubblicazione (2006) sulla storia del paese, fu proprio quella di “Tancau”. “Il Consiglio Comunitativo di Lotzorai, - scrive Porru - si occupò dell’applicazione dell’editto relativamente tardi. Nel 1827, infatti, con l’ausilio di cinque periti nominati per l’occasione, considerando che il territorio comunale era assai piccolo e nessuno sembrava particolarmente interessato a chiudere terreni, di chiudere solamente la regione detta Tancau, che era già da secoli una zona di pascolo privilegiato. Sono ancora oggi visibili i resti dei muretti a secco originali nella zona che, superata la località di Orzudeni, arriva a Tancau costeggiando la strada litorale per Santa Maria Navarrese ”. Pertanto appare plausibile che a partire da quegli anni tutta la zona oggi a cavallo del confine tra Lotzorai e Baunei, caratterizzata da terreni “chiusi”, sia stata genericamente chiamata “Tancau”. La proprietà privata a Santa Maria nascerà più tardi, alla fine dell’Ottocento, con la “lottizzazione di Ulbai e Masolce”. Solo allora i baunesi inizieranno ad affacciarsi sul mare dopo secoli di isolamento sulle montagne. E solo allora inizierà la storia della borgata di Santa Maria Navarrese.
A Baunei e Santa Maria Navarrese l’arenile compreso tra la Torre Spagnola e il porto turistico è chiamato “spiaggia di San Giovanni”. Questa spiaggia ciottolosa, lunga un centinaio di metri e costeggiata per tutta la sua estensione da un canneto che offre una precoce ombra pomeridiana nelle ore più calde della giornata, è caratterizzata da un fondale roccioso. Il motivo dell’intitolazione della spiaggia a San Giovanni è ignoto, di certo si sa che in sardo veniva chiamata “sa funtana de Santu Giuanni” anche una sorgente d’acqua dolce che sgorgava a pochi metri dalla spiaggia (sorgente oggi interrata, in seguito ai lavori di realizzazione del porto turistico). Che questa insenatura a nord della Torre Spagnola sia stata frequentata per secoli delle imbarcazioni che navigavano lungo la costa ogliastrina è confermato anche dal fatto che tra gli anziani di Baunei l’arenile è tuttora noto con il nome di “Portu Santu Giuanni”. Con questo nome, in passato, probabilmente si faceva riferimento soprattutto all’altro arenile più a nord, che terminava sotto il promontorio roccioso de “Sa Cadrea”, e che si sviluppava per una lunghezza di circa duecento metri (in un’ansa nella quale è stato ricavato lo spiazzo in cui sono stati allestiti i cantieri di rimessaggio del porticciolo). Nella “Descrizione Geografica della Sardegna” del cagliaritano Giuseppe Cossu, pubblicata a Genova nel 1799, nelle pagine dove vengono delineate le caratteristiche “della costa di Levante”, è citato “il piccol porto di San Giovanni con un circolo di tre scoglietti, per i quali si trova la punta di S. Maria Navaresa (sic) circondata di scogli” (…). Qualche decennio dopo la descrizione del Cossu, anche l’Angius definisce “porto” l’insenatura a nord della torre, quando descrive il tratto di costa tra Pedra Longa e la Torre Spagnola: “Continuando nella direzione all’austro trovasi il suddetto scoglio piramidale dell’Aguglia, indi la punta Moro-negro, dove già abbassatesi gradatamente le alpestri eminenze, comincia a distendersi il livello delle maremme. Offronsi poscia alla vista luoghi piacevoli con rupi verdeggianti, mentre si va a vedere il piccol porto di S. Giovanni; dopo il quale trovasi la punta di S. Maria Navarresa circondata di scogli, sopra le cui rupi sorge la torre dello stesso nome (…)”. Lo specchio d’acqua oggi inglobato dalle banchine del porticciolo, un tempo era chiamato dagli abitanti di Santa Maria Navarrese anche “su mare de us Erissos”, (“il mare degli Erittu”) perché le terre coltivate retrostanti la spiaggia appartenevano alla famiglia Erittu.
San Giovanni Beach
Lungomare Monte Santo
A Baunei e Santa Maria Navarrese l’arenile compreso tra la Torre Spagnola e il porto turistico è chiamato “spiaggia di San Giovanni”. Questa spiaggia ciottolosa, lunga un centinaio di metri e costeggiata per tutta la sua estensione da un canneto che offre una precoce ombra pomeridiana nelle ore più calde della giornata, è caratterizzata da un fondale roccioso. Il motivo dell’intitolazione della spiaggia a San Giovanni è ignoto, di certo si sa che in sardo veniva chiamata “sa funtana de Santu Giuanni” anche una sorgente d’acqua dolce che sgorgava a pochi metri dalla spiaggia (sorgente oggi interrata, in seguito ai lavori di realizzazione del porto turistico). Che questa insenatura a nord della Torre Spagnola sia stata frequentata per secoli delle imbarcazioni che navigavano lungo la costa ogliastrina è confermato anche dal fatto che tra gli anziani di Baunei l’arenile è tuttora noto con il nome di “Portu Santu Giuanni”. Con questo nome, in passato, probabilmente si faceva riferimento soprattutto all’altro arenile più a nord, che terminava sotto il promontorio roccioso de “Sa Cadrea”, e che si sviluppava per una lunghezza di circa duecento metri (in un’ansa nella quale è stato ricavato lo spiazzo in cui sono stati allestiti i cantieri di rimessaggio del porticciolo). Nella “Descrizione Geografica della Sardegna” del cagliaritano Giuseppe Cossu, pubblicata a Genova nel 1799, nelle pagine dove vengono delineate le caratteristiche “della costa di Levante”, è citato “il piccol porto di San Giovanni con un circolo di tre scoglietti, per i quali si trova la punta di S. Maria Navaresa (sic) circondata di scogli” (…). Qualche decennio dopo la descrizione del Cossu, anche l’Angius definisce “porto” l’insenatura a nord della torre, quando descrive il tratto di costa tra Pedra Longa e la Torre Spagnola: “Continuando nella direzione all’austro trovasi il suddetto scoglio piramidale dell’Aguglia, indi la punta Moro-negro, dove già abbassatesi gradatamente le alpestri eminenze, comincia a distendersi il livello delle maremme. Offronsi poscia alla vista luoghi piacevoli con rupi verdeggianti, mentre si va a vedere il piccol porto di S. Giovanni; dopo il quale trovasi la punta di S. Maria Navarresa circondata di scogli, sopra le cui rupi sorge la torre dello stesso nome (…)”. Lo specchio d’acqua oggi inglobato dalle banchine del porticciolo, un tempo era chiamato dagli abitanti di Santa Maria Navarrese anche “su mare de us Erissos”, (“il mare degli Erittu”) perché le terre coltivate retrostanti la spiaggia appartenevano alla famiglia Erittu.
Lungo la costa, poche miglia a nord di Santa Maria, si trova la guglia calcarea di “Pedra Longa”, “Monumento naturale” dal 1993, punto cospicuo da sempre prezioso per i marinai, perché visibile a chilometri di distanza. La località è facilmente raggiungibile in auto: lasciata l’Orientale Sarda al km 153, a sud di Baunei, si prende una strada che dopo un breve tratto in salita (che porta nei pressi del punto di ristoro di “ùttolo”) si trasforma in una spettacolare e panoramica discesa, che in pochi minuti permette di arrivare ai piedi della guglia. A “Pedra Longa” si può arrivare anche a piedi da S. Maria (due ore di cammino), imboccando un sentiero nei pressi dell’ “Ostello Bellavista”, sopra il promontorio che domina il porto turistico. Dal piazzale di “Pedra Longa”, di fronte all’omonimo bar ristorante costruito negli anni Settanta, si può raggiungere il mare percorrendo una scalinata in pietra che termina a pochi metri dagli scogli a nord del pinnacolo roccioso. Gli scogli a sud della guglia sono raggiungibili seguendo la strada che porta all’altro piazzale-parcheggio. La singolare guglia piramidale di Pedra Longa, con i suoi 128 metri di altezza, ha rappresentato nei secoli un importante e prezioso punto di riferimento per tutti i naviganti che costeggiavano le falesie di Capo Monte Santu. Negli antichi portolani è chiamata “Agugliastra”, e secondo la tradizione da questo nome sarebbe derivato il toponimo “Ogliastra”. Anche l’Angius era di questo parere, visto che descrivendo la guglia calcarea di Pedra Longa ricordava che essa “è conosciuta sotto il nome, che ben le conviene, di Aguglia, o Agugliastra, ed indi venne la vera appellazione della provincia, che primitivamente non Ogliastra, ma era Agugliastra, come la nominava il Fara, e gli altri antichi”. Ai primi del Novecento, durante il breve periodo in cui fu operativa la cava litografica de “Su Stabilimentu”, a poca distanza dalla guglia di Pedra Longa fu attrezzato un punto di attracco per consentire ai bastimenti di caricare le lastre di calcare che venivano trasportate a valle con una lunga funivia. Ultimo punto, in direzione nord, del litorale di Baunei raggiungibile in auto, Pedra Longa è oggi nota anche per essere il punto di partenza del famoso trekking chiamato “Selvaggio Blu”. Si tratta di un percorso che si snoda lungo la costa baunese, in cinque o sei tappe, da Pedra Longa a Cala Luna. Fra gli amanti dell’escursionismo è considerato uno dei trekking più spettacolari d’Europa.
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Pedra Longa
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Lungo la costa, poche miglia a nord di Santa Maria, si trova la guglia calcarea di “Pedra Longa”, “Monumento naturale” dal 1993, punto cospicuo da sempre prezioso per i marinai, perché visibile a chilometri di distanza. La località è facilmente raggiungibile in auto: lasciata l’Orientale Sarda al km 153, a sud di Baunei, si prende una strada che dopo un breve tratto in salita (che porta nei pressi del punto di ristoro di “ùttolo”) si trasforma in una spettacolare e panoramica discesa, che in pochi minuti permette di arrivare ai piedi della guglia. A “Pedra Longa” si può arrivare anche a piedi da S. Maria (due ore di cammino), imboccando un sentiero nei pressi dell’ “Ostello Bellavista”, sopra il promontorio che domina il porto turistico. Dal piazzale di “Pedra Longa”, di fronte all’omonimo bar ristorante costruito negli anni Settanta, si può raggiungere il mare percorrendo una scalinata in pietra che termina a pochi metri dagli scogli a nord del pinnacolo roccioso. Gli scogli a sud della guglia sono raggiungibili seguendo la strada che porta all’altro piazzale-parcheggio. La singolare guglia piramidale di Pedra Longa, con i suoi 128 metri di altezza, ha rappresentato nei secoli un importante e prezioso punto di riferimento per tutti i naviganti che costeggiavano le falesie di Capo Monte Santu. Negli antichi portolani è chiamata “Agugliastra”, e secondo la tradizione da questo nome sarebbe derivato il toponimo “Ogliastra”. Anche l’Angius era di questo parere, visto che descrivendo la guglia calcarea di Pedra Longa ricordava che essa “è conosciuta sotto il nome, che ben le conviene, di Aguglia, o Agugliastra, ed indi venne la vera appellazione della provincia, che primitivamente non Ogliastra, ma era Agugliastra, come la nominava il Fara, e gli altri antichi”. Ai primi del Novecento, durante il breve periodo in cui fu operativa la cava litografica de “Su Stabilimentu”, a poca distanza dalla guglia di Pedra Longa fu attrezzato un punto di attracco per consentire ai bastimenti di caricare le lastre di calcare che venivano trasportate a valle con una lunga funivia. Ultimo punto, in direzione nord, del litorale di Baunei raggiungibile in auto, Pedra Longa è oggi nota anche per essere il punto di partenza del famoso trekking chiamato “Selvaggio Blu”. Si tratta di un percorso che si snoda lungo la costa baunese, in cinque o sei tappe, da Pedra Longa a Cala Luna. Fra gli amanti dell’escursionismo è considerato uno dei trekking più spettacolari d’Europa.
Nel tratto di costa a nord di Fòrrola la falesia diventa di colpo una parete a strapiombo sul mare, alta più di 300 metri. Alla base di questa parete impressionante, meta di free climbers in vena di misurare la propria abilità, si apre la “Grotta dei Colombi”, che deve il suo nome alla numerosa colonia di colombi selvatici che la frequentano durante tutto l’anno (e che devono faticosamente dividere le aree davanti alle falesie con la nutrita colonia di Falchi della Regina, che su queste pareti nidifica). La “Grotta dei Colombi” è accessibile solamente via mare e per poterne ammirare da vicino la sorprendente maestosità della volta è pertanto necessario navigare molto vicino alla falesia. In condizioni di mare particolarmente calmo è possibile arrampicarsi sulla roccia per raggiungere l’interno della spelonca, che si sviluppa ad una altezza di 7 metri sul livello del mare. Questa grotta è solamente una delle tante cavità carsiche presenti nella costa baunese. La formazione di simili grotte si deve all’erosione provocata dall’acqua piovana, che infiltrandosi negli strati più profondi della roccia erode il calcare. Dalla Grotta dei Colombi in poi la costa si tiene alta, a picco sul mare, sino al promontorio di Capo Monte Santu, dove digrada nettamente, sino a misurare pochi metri, per poi risalire nuovamente, sino a sfiorare i 500 metri a Punta Salinas. Lungo la costa sono numerose anche le grotte sommerse, testimoni di ere geologiche lontane in cui il livello del mare era diverso da quello attuale. Una di queste grotte sommerse (l’ingresso è a 12 metri sotto il livello del mare), lunga diversi chilometri, si trova alcune miglia a nord della Grotta dei Colombi, dopo Capo Monte Santu. Si tratta della grotta battezzata “Utopia” dagli speleosub che l’hanno scoperta negli anni Sessanta; “Utopia” è stata esplorata da un’equipe di professionisti, guidata da un chimico, Markus Schafheutze, appositamente arrivata dalla Germania a metà degli anni Novanta. Nell’estate del 2002, nel corso di una di queste esplorazioni ripetute negli anni, gli speleosub tedeschi scoprirono l’esistenza di una sala ricca di stalattiti e stalagmiti ubicata alla profondità di 80 metri sotto il livello del mare. Poiché le stalattiti e le stalagmiti sono concrezioni che si formano solo in presenza di aria (per reazione chimica del bicarbonato di calcio che a contatto con l’atmosfera si trasforma in carbonato di calcio, solidificandosi), ne consegue che la loro presenza in saloni oggi sommersi dalle acque marine dimostra che, un tempo, queste grotte si trovavano sopra il livello del mare.
Grotta dei Colombi
Nel tratto di costa a nord di Fòrrola la falesia diventa di colpo una parete a strapiombo sul mare, alta più di 300 metri. Alla base di questa parete impressionante, meta di free climbers in vena di misurare la propria abilità, si apre la “Grotta dei Colombi”, che deve il suo nome alla numerosa colonia di colombi selvatici che la frequentano durante tutto l’anno (e che devono faticosamente dividere le aree davanti alle falesie con la nutrita colonia di Falchi della Regina, che su queste pareti nidifica). La “Grotta dei Colombi” è accessibile solamente via mare e per poterne ammirare da vicino la sorprendente maestosità della volta è pertanto necessario navigare molto vicino alla falesia. In condizioni di mare particolarmente calmo è possibile arrampicarsi sulla roccia per raggiungere l’interno della spelonca, che si sviluppa ad una altezza di 7 metri sul livello del mare. Questa grotta è solamente una delle tante cavità carsiche presenti nella costa baunese. La formazione di simili grotte si deve all’erosione provocata dall’acqua piovana, che infiltrandosi negli strati più profondi della roccia erode il calcare. Dalla Grotta dei Colombi in poi la costa si tiene alta, a picco sul mare, sino al promontorio di Capo Monte Santu, dove digrada nettamente, sino a misurare pochi metri, per poi risalire nuovamente, sino a sfiorare i 500 metri a Punta Salinas. Lungo la costa sono numerose anche le grotte sommerse, testimoni di ere geologiche lontane in cui il livello del mare era diverso da quello attuale. Una di queste grotte sommerse (l’ingresso è a 12 metri sotto il livello del mare), lunga diversi chilometri, si trova alcune miglia a nord della Grotta dei Colombi, dopo Capo Monte Santu. Si tratta della grotta battezzata “Utopia” dagli speleosub che l’hanno scoperta negli anni Sessanta; “Utopia” è stata esplorata da un’equipe di professionisti, guidata da un chimico, Markus Schafheutze, appositamente arrivata dalla Germania a metà degli anni Novanta. Nell’estate del 2002, nel corso di una di queste esplorazioni ripetute negli anni, gli speleosub tedeschi scoprirono l’esistenza di una sala ricca di stalattiti e stalagmiti ubicata alla profondità di 80 metri sotto il livello del mare. Poiché le stalattiti e le stalagmiti sono concrezioni che si formano solo in presenza di aria (per reazione chimica del bicarbonato di calcio che a contatto con l’atmosfera si trasforma in carbonato di calcio, solidificandosi), ne consegue che la loro presenza in saloni oggi sommersi dalle acque marine dimostra che, un tempo, queste grotte si trovavano sopra il livello del mare.
Il promontorio di Capo Monte Santu segna il limite meridionale del Golfo di Orosei, che a nord si chiude con Capo Comino. “Questo capo, ben noto ai marinai, - annotava il La Marmora, impressionato dalla maestosità delle falesie, nel suo “Itinerario dell’Isola di Sardegna” - è tagliato a picco a un’altezza considerevole sopra il livello del mare, che bagna le sue falesie, alte diverse centinaia di metri; si può arrivare a toccarle con la mano in tempo di calma, perché si immergono verticalmente in mare fino a grande profondità”. Il tratto di costa di Capo Monte Santu si presenta particolarmente frastagliato con alcune insenature che penetrano per decine di metri nelle pareti calcaree come dei veri e propri fiordi. Queste rientranze della costa, visibili solamente se si naviga molto vicino alle scogliere, in sardo prendono il nome di “Portu”, perché in particolari condizioni meteo possono consentire a piccole imbarcazioni di stare a ridosso delle pareti rocciose. Navigando da sud verso nord si incontrano, nell’ordine: “Portu Pedrosu”, “Portu Cuau” e “Portu Eltiera”. “Portu Pedrosu”, che letteralmente significa “porto pietroso” (perché termina con una piccola spiaggia di sassi e ciottoli), è chiamato dai pastori di Baunei “Portu Porru ’e campu”. “Porru ’e campu” da queste parti è il nome in sardo di una particolare specie di aglio selvatico, l’ “Aglio triquetro”, pianta erbacea bulbosa dai fiori bianchi striati di verde che cresce soprattutto nei terreni umidi e ombrosi e che evidentemente, in passato, era talmente diffuso nella zona retrostante il piccolo fiordo da spingere i pastori ad associarne il nome all’insenatura. Il La Marmora riporta questo toponimo nel 1857: Prima di giungere alla Guglia [il pinnacolo di Cala Goloritzè] si trova un’ansa, chiamata Porru ’e Campu”. La parte finale dell’insenatura è molto stretta e perciò raggiungibile solo con piccole imbarcazioni. “Portu Cuau”, che significa “porto nascosto”, è un’insenatura più ampia di “Portu Pedrosu”, e in passato, all’epoca dei carbonai, è stato un punto di approdo per le imbarcazioni che caricavano il carbone prodotto nelle piazzole retrostanti. Anche “Portu Cuau” può vantare un doppio nome; essendo noto tra i pescatori di Arbatax e Cala Gonone come “Cala Tramontana”. “Portu Cuau”, più ampio e più largo di “Portu Pedrosu”, è accessibile anche ad imbarcazioni di medie dimensioni. “Portu Eltiera”, che a differenza dei due “porti” che lo precedono non si sviluppa in lunghezza, è invece una rientranza delle pareti a strapiombo della linea di costa che non dà per nulla l’idea di essere un rifugio sicuro in caso di mare mosso.
Capo Monte Santu
Il promontorio di Capo Monte Santu segna il limite meridionale del Golfo di Orosei, che a nord si chiude con Capo Comino. “Questo capo, ben noto ai marinai, - annotava il La Marmora, impressionato dalla maestosità delle falesie, nel suo “Itinerario dell’Isola di Sardegna” - è tagliato a picco a un’altezza considerevole sopra il livello del mare, che bagna le sue falesie, alte diverse centinaia di metri; si può arrivare a toccarle con la mano in tempo di calma, perché si immergono verticalmente in mare fino a grande profondità”. Il tratto di costa di Capo Monte Santu si presenta particolarmente frastagliato con alcune insenature che penetrano per decine di metri nelle pareti calcaree come dei veri e propri fiordi. Queste rientranze della costa, visibili solamente se si naviga molto vicino alle scogliere, in sardo prendono il nome di “Portu”, perché in particolari condizioni meteo possono consentire a piccole imbarcazioni di stare a ridosso delle pareti rocciose. Navigando da sud verso nord si incontrano, nell’ordine: “Portu Pedrosu”, “Portu Cuau” e “Portu Eltiera”. “Portu Pedrosu”, che letteralmente significa “porto pietroso” (perché termina con una piccola spiaggia di sassi e ciottoli), è chiamato dai pastori di Baunei “Portu Porru ’e campu”. “Porru ’e campu” da queste parti è il nome in sardo di una particolare specie di aglio selvatico, l’ “Aglio triquetro”, pianta erbacea bulbosa dai fiori bianchi striati di verde che cresce soprattutto nei terreni umidi e ombrosi e che evidentemente, in passato, era talmente diffuso nella zona retrostante il piccolo fiordo da spingere i pastori ad associarne il nome all’insenatura. Il La Marmora riporta questo toponimo nel 1857: Prima di giungere alla Guglia [il pinnacolo di Cala Goloritzè] si trova un’ansa, chiamata Porru ’e Campu”. La parte finale dell’insenatura è molto stretta e perciò raggiungibile solo con piccole imbarcazioni. “Portu Cuau”, che significa “porto nascosto”, è un’insenatura più ampia di “Portu Pedrosu”, e in passato, all’epoca dei carbonai, è stato un punto di approdo per le imbarcazioni che caricavano il carbone prodotto nelle piazzole retrostanti. Anche “Portu Cuau” può vantare un doppio nome; essendo noto tra i pescatori di Arbatax e Cala Gonone come “Cala Tramontana”. “Portu Cuau”, più ampio e più largo di “Portu Pedrosu”, è accessibile anche ad imbarcazioni di medie dimensioni. “Portu Eltiera”, che a differenza dei due “porti” che lo precedono non si sviluppa in lunghezza, è invece una rientranza delle pareti a strapiombo della linea di costa che non dà per nulla l’idea di essere un rifugio sicuro in caso di mare mosso.
Per la sua particolare forma di promontorio proteso “a cuneo” verso il largo, Capo Monte Santu è molto esposto alle correnti costiere. Le sue acque pertanto sono ricche di nutrimento e, di conseguenza, di pesce. Questo ne fa una delle mete preferite degli appassionati di immersioni, che inoltre, da queste parti, nel fondale di Portu Cuau, possono anche visitare i resti di un mercantile, il “Levante”, tragicamente affondato nel gennaio del 1963. Il “Levante”, mercantile di proprietà della “Compagnia Marittima Sarda”, noleggiato nell’occasione dalla “Piero Rossi Traffici Marittimi” di Genova, partì dal porto ligure con tredici uomini di equipaggio il 17 gennaio 1963, con destinazione Tunisi. Dopo una breve sosta nel porto nordafricano, mollò gli ormeggi il 21 gennaio, facendo rotta su Marsiglia. Costeggiando la Sardegna incontrò pessime condizioni meteorologiche, con mare forza 9 sostenuto da raffiche di vento che toccavano i 150 km/h. La visibilità scarsa, meno di 200 metri, forse fece cadere in errore il comandante della nave, il genovese Angelo Macciocco di 61 anni, e il “Levante”, nella notte tra il 23 e il 24 gennaio 1963, andò a fracassarsi sugli scogli di Portu Cuau, senza neppure avere il tempo di lanciare un SOS. Per i tredici uomini di equipaggio non ci fu via di scampo. Uno solo degli sfortunati marinai era sardo, il cagliaritano Ignazio Zedda, di 31 anni; gli altri membri dell’equipaggio venivano dalla Liguria, dalla Toscana e dalla Sicilia. A dare la notizia del drammatico naufragio fu un giovane pastore di Baunei, Giovanni Cabras, che la mattina dopo, affacciandosi dalla scogliera, vide sporgere dall’acqua l’albero di una nave. Intorno solo morte e desolazione, cadaveri in balia delle onde e resti della nave sballottati contro gli scogli. “Fra i flutti agitati da un forte vento - scrisse in prima pagina il quotidiano “L’Unione Sarda”, il 27 gennaio 1963 - il pastore aveva notato due macchie bianche che avevano attratto la sua attenzione. Sporgendosi (…) aveva potuto constatare che si trattava dei corpi di due uomini. Accanto ad essi galleggiavano alcuni rottami. Fra gli scogli si intravedeva la carcassa di una nave. Giovanni Cabras, intuendo l’accaduto si dirigeva immediatamente in paese e, dopo una marcia estenuante di oltre dieci chilometri, si presentava nella caserma dei Carabinieri informando il comandante della stazione di quanto aveva visto: <<Ho visto due uomini sugli scogli. Sembrano morti. Li ho visti questa mattina. Vicino c’è una nave affondata>>”.
Portu Cuau
Per la sua particolare forma di promontorio proteso “a cuneo” verso il largo, Capo Monte Santu è molto esposto alle correnti costiere. Le sue acque pertanto sono ricche di nutrimento e, di conseguenza, di pesce. Questo ne fa una delle mete preferite degli appassionati di immersioni, che inoltre, da queste parti, nel fondale di Portu Cuau, possono anche visitare i resti di un mercantile, il “Levante”, tragicamente affondato nel gennaio del 1963. Il “Levante”, mercantile di proprietà della “Compagnia Marittima Sarda”, noleggiato nell’occasione dalla “Piero Rossi Traffici Marittimi” di Genova, partì dal porto ligure con tredici uomini di equipaggio il 17 gennaio 1963, con destinazione Tunisi. Dopo una breve sosta nel porto nordafricano, mollò gli ormeggi il 21 gennaio, facendo rotta su Marsiglia. Costeggiando la Sardegna incontrò pessime condizioni meteorologiche, con mare forza 9 sostenuto da raffiche di vento che toccavano i 150 km/h. La visibilità scarsa, meno di 200 metri, forse fece cadere in errore il comandante della nave, il genovese Angelo Macciocco di 61 anni, e il “Levante”, nella notte tra il 23 e il 24 gennaio 1963, andò a fracassarsi sugli scogli di Portu Cuau, senza neppure avere il tempo di lanciare un SOS. Per i tredici uomini di equipaggio non ci fu via di scampo. Uno solo degli sfortunati marinai era sardo, il cagliaritano Ignazio Zedda, di 31 anni; gli altri membri dell’equipaggio venivano dalla Liguria, dalla Toscana e dalla Sicilia. A dare la notizia del drammatico naufragio fu un giovane pastore di Baunei, Giovanni Cabras, che la mattina dopo, affacciandosi dalla scogliera, vide sporgere dall’acqua l’albero di una nave. Intorno solo morte e desolazione, cadaveri in balia delle onde e resti della nave sballottati contro gli scogli. “Fra i flutti agitati da un forte vento - scrisse in prima pagina il quotidiano “L’Unione Sarda”, il 27 gennaio 1963 - il pastore aveva notato due macchie bianche che avevano attratto la sua attenzione. Sporgendosi (…) aveva potuto constatare che si trattava dei corpi di due uomini. Accanto ad essi galleggiavano alcuni rottami. Fra gli scogli si intravedeva la carcassa di una nave. Giovanni Cabras, intuendo l’accaduto si dirigeva immediatamente in paese e, dopo una marcia estenuante di oltre dieci chilometri, si presentava nella caserma dei Carabinieri informando il comandante della stazione di quanto aveva visto: <<Ho visto due uomini sugli scogli. Sembrano morti. Li ho visti questa mattina. Vicino c’è una nave affondata>>”.
A nord di Cala Goloritzè e della piccola spiaggia “delle Sorgenti”, le falesie arretrano lasciando spazio ad una ampia scarpata detritica ricoperta dalla fitta foresta di “Ispuligidenie”, incorniciata dal crinale della montagna calcarea di “Serra ’e Lattone”. E possibile accedere alla foresta via terra, partendo dall’altopiano di Golgo (in località “Piredda”) seguendo le indicazioni recentemente posizionate ad uso degli escursionisti che decidono di affrontare l’impegnativo percorso (3-4 ore di cammino) anche senza essere accompagnati da esperte guide. Giova comunque ricordare che non sono rari i casi di escursionisti imprudenti che si perdono nel Supramonte baunese nel tentativo di raggiungere le spiagge dall’entroterra. Il primo arenile che si incontra procedendo verso nord, qualche centinaio di metri dopo “le Sorgenti”, prende il nome di “Cala dei Gabbiani”. Questa spiaggia, lunga circa 250 metri, deve il suo nome al fatto che ogni sera, verso il tramonto, vi si radunano decine di gabbiani. E’ una delle spiagge preferite dai diportisti perché non vi fanno scalo i grandi barconi che fanno la spola lungo gli arenili della costa e per questo poco affollata anche in alta stagione. La spiaggia “dei Gabbiani”, come quella di Goloritzè, è composta da ciottoli bianchi levigati dalle onde, con fondale subito profondo e roccioso. Si tratta di una particolare tipologia di arenili, detti “di frana”, poiché originatisi da materiale di origine franosa rielaborato dalle onde e dalle correnti. Diversa è la tipologia delle spiagge che si creano alla foce di fiumi e torrenti per il progressivo accumulo dei detriti trasportati dai corsi d’acqua. Il nome di “Cala dei Gabbiani” è di recente creazione perché in realtà, nella carte nautiche questo arenile e quello che segue in direzione nord (oggi noto con il doppio nome di “Ispuligidenie - Cala Mariolu”) sono indicati con l’unico toponimo di “Ispuligidenie”. L’enorme scoglio piatto che chiude “Cala Gabbiani” a nord, nelle carte è infatti indicato come “Punta Ispuligi”. In questo scoglio che digrada dolcemente verso il mare, chiamato dai pastori baunesi “Sa Pedra ‘e Su Curadore”, venivano ormeggiati i mercantili che imbarcavano il carbone prodotto in loco dai carbonai (che lavorarono nella foresta di “Ispuligidenie” fino al 1953). Risalendo il sentiero e addentrandosi per un breve tratto nella foresta si possono individuare ancora oggi le piazzole dove i carbonai approntavano le cataste di legna che poi venivano ricoperte di terra; da un foro appositamente lasciato sulla sommità della “carbonaia” veniva appiccato il fuoco, che in alcuni giorni di combustione portava a termine il processo di carbonizzazione.
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Cala dei Gabbiani
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A nord di Cala Goloritzè e della piccola spiaggia “delle Sorgenti”, le falesie arretrano lasciando spazio ad una ampia scarpata detritica ricoperta dalla fitta foresta di “Ispuligidenie”, incorniciata dal crinale della montagna calcarea di “Serra ’e Lattone”. E possibile accedere alla foresta via terra, partendo dall’altopiano di Golgo (in località “Piredda”) seguendo le indicazioni recentemente posizionate ad uso degli escursionisti che decidono di affrontare l’impegnativo percorso (3-4 ore di cammino) anche senza essere accompagnati da esperte guide. Giova comunque ricordare che non sono rari i casi di escursionisti imprudenti che si perdono nel Supramonte baunese nel tentativo di raggiungere le spiagge dall’entroterra. Il primo arenile che si incontra procedendo verso nord, qualche centinaio di metri dopo “le Sorgenti”, prende il nome di “Cala dei Gabbiani”. Questa spiaggia, lunga circa 250 metri, deve il suo nome al fatto che ogni sera, verso il tramonto, vi si radunano decine di gabbiani. E’ una delle spiagge preferite dai diportisti perché non vi fanno scalo i grandi barconi che fanno la spola lungo gli arenili della costa e per questo poco affollata anche in alta stagione. La spiaggia “dei Gabbiani”, come quella di Goloritzè, è composta da ciottoli bianchi levigati dalle onde, con fondale subito profondo e roccioso. Si tratta di una particolare tipologia di arenili, detti “di frana”, poiché originatisi da materiale di origine franosa rielaborato dalle onde e dalle correnti. Diversa è la tipologia delle spiagge che si creano alla foce di fiumi e torrenti per il progressivo accumulo dei detriti trasportati dai corsi d’acqua. Il nome di “Cala dei Gabbiani” è di recente creazione perché in realtà, nella carte nautiche questo arenile e quello che segue in direzione nord (oggi noto con il doppio nome di “Ispuligidenie - Cala Mariolu”) sono indicati con l’unico toponimo di “Ispuligidenie”. L’enorme scoglio piatto che chiude “Cala Gabbiani” a nord, nelle carte è infatti indicato come “Punta Ispuligi”. In questo scoglio che digrada dolcemente verso il mare, chiamato dai pastori baunesi “Sa Pedra ‘e Su Curadore”, venivano ormeggiati i mercantili che imbarcavano il carbone prodotto in loco dai carbonai (che lavorarono nella foresta di “Ispuligidenie” fino al 1953). Risalendo il sentiero e addentrandosi per un breve tratto nella foresta si possono individuare ancora oggi le piazzole dove i carbonai approntavano le cataste di legna che poi venivano ricoperte di terra; da un foro appositamente lasciato sulla sommità della “carbonaia” veniva appiccato il fuoco, che in alcuni giorni di combustione portava a termine il processo di carbonizzazione.
Tra lo scoglio piatto che delimita “Cala dei Gabbiani” e la falesia a picco che chiude la foresta di “Ispuligidenie” a nord, si sviluppa uno degli arenili oggi più famosi e più frequentati della costa baunese. Questa spiaggia, lunga circa 300 metri, divisa in due parti da un grosso scoglio utilizzato come molo di attracco dai barconi che trasportano i turisti, è oggi nota con il doppio nome di “Ispuligidenie - Cala Mariolu”. I due nomi si spiegano con la particolare storia di questo tratto di costa, e in un certo senso riassumono mirabilmente un passato in cui si intrecciano i racconti dei pastori con quelli dei pescatori. Innanzitutto si può dire che il nome “Ispuligidenie” precede nel tempo quello di “Cala Mariolu”: perché il primo è quello dato dai pastori di Baunei che frequentavano l’entroterra, mentre il secondo è stato imposto dai pescatori ponzesi che all’inizio del Novecento si stabilirono a Cala Gonone e Arbatax. “Ispuligidenie” deriverebbe infatti da “su pulige de nie”, che in sardo baunese significa letteralmente “le pulci di neve”, poetica metafora utilizzata dai pastori della zona per definire i candidi ciottoli levigati dalle onde di cui è composta la spiaggia, e che probabilmente, in seguito, è passata ad identificare l’intera foresta che sovrasta la spiaggia. “Cala Mariolu”, invece, più prosaicamente, significa “cala del ladro”, e tale definizione si deve ai pescatori ponzesi, che nel loro dialetto di derivazione napoletana chiamavano “o mariuolo” (“il ladro”) la foca monaca (un tempo assidua frequentatrice di questo tratto di costa) perché questa “rubava” il pesce direttamente dalle reti calate dalle barche. In breve tempo il termine venne sardizzato con la “u” finale, e da allora “Ispuligidenie” cominciò ad essere chiamata anche “Cala Mariolu”. I ponzesi che hanno ribattezzato la spiaggia di Ispuligidenie hanno di fatto segnato la storia marinaresca della costa tra Arbatax e Cala Gonone. Arrivavano a bordo di particolari imbarcazioni, chiamate “mbruchièlle”, con le quali pescavano le aragoste che poi trasportavano, ancora vive, sino a Marsiglia. Questi abili pescatori dai cognomi inconfondibilmente napoletani come Aversano, Vitiello, Morlè, partiti da un arcipelago a venti miglia dalle coste del Lazio, portarono l’arte della pesca nella costa di Baunei, dove l’Angius, nel 1834, aveva notato che “nessuno (…) applicossi mai alla pescagione nel mare (…)”. Curiosamente, oltre un secolo dopo le parole dell’Angius, nel 1959, una donna baunese, Speranza Maddanu, andata in sposa ad un pescatore ponzese, Giovanni Aversano, aprirà ad Arbatax il primo ristorante a base di pesce dell’intera Ogliastra.
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BEST BEACH IN SARDINIA AND SNORKELING
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Tra lo scoglio piatto che delimita “Cala dei Gabbiani” e la falesia a picco che chiude la foresta di “Ispuligidenie” a nord, si sviluppa uno degli arenili oggi più famosi e più frequentati della costa baunese. Questa spiaggia, lunga circa 300 metri, divisa in due parti da un grosso scoglio utilizzato come molo di attracco dai barconi che trasportano i turisti, è oggi nota con il doppio nome di “Ispuligidenie - Cala Mariolu”. I due nomi si spiegano con la particolare storia di questo tratto di costa, e in un certo senso riassumono mirabilmente un passato in cui si intrecciano i racconti dei pastori con quelli dei pescatori. Innanzitutto si può dire che il nome “Ispuligidenie” precede nel tempo quello di “Cala Mariolu”: perché il primo è quello dato dai pastori di Baunei che frequentavano l’entroterra, mentre il secondo è stato imposto dai pescatori ponzesi che all’inizio del Novecento si stabilirono a Cala Gonone e Arbatax. “Ispuligidenie” deriverebbe infatti da “su pulige de nie”, che in sardo baunese significa letteralmente “le pulci di neve”, poetica metafora utilizzata dai pastori della zona per definire i candidi ciottoli levigati dalle onde di cui è composta la spiaggia, e che probabilmente, in seguito, è passata ad identificare l’intera foresta che sovrasta la spiaggia. “Cala Mariolu”, invece, più prosaicamente, significa “cala del ladro”, e tale definizione si deve ai pescatori ponzesi, che nel loro dialetto di derivazione napoletana chiamavano “o mariuolo” (“il ladro”) la foca monaca (un tempo assidua frequentatrice di questo tratto di costa) perché questa “rubava” il pesce direttamente dalle reti calate dalle barche. In breve tempo il termine venne sardizzato con la “u” finale, e da allora “Ispuligidenie” cominciò ad essere chiamata anche “Cala Mariolu”. I ponzesi che hanno ribattezzato la spiaggia di Ispuligidenie hanno di fatto segnato la storia marinaresca della costa tra Arbatax e Cala Gonone. Arrivavano a bordo di particolari imbarcazioni, chiamate “mbruchièlle”, con le quali pescavano le aragoste che poi trasportavano, ancora vive, sino a Marsiglia. Questi abili pescatori dai cognomi inconfondibilmente napoletani come Aversano, Vitiello, Morlè, partiti da un arcipelago a venti miglia dalle coste del Lazio, portarono l’arte della pesca nella costa di Baunei, dove l’Angius, nel 1834, aveva notato che “nessuno (…) applicossi mai alla pescagione nel mare (…)”. Curiosamente, oltre un secolo dopo le parole dell’Angius, nel 1959, una donna baunese, Speranza Maddanu, andata in sposa ad un pescatore ponzese, Giovanni Aversano, aprirà ad Arbatax il primo ristorante a base di pesce dell’intera Ogliastra.
Navigando verso nord, a circa un miglio di distanza dalla spiaggia di “Mudaloru”, si trova la “Grotta del Fico”, che si apre nella scogliera calcarea, a circa 10 metri di altezza sul livello del mare. Esplorata per la prima volta negli anni Sessanta dagli speleologi del “Gruppo Pio XI”, (sodalizio fondato dal prete speleologo Padre Antonio Furreddu, l’iniziatore della speleologia in Sardegna), lo stesso che partecipò alla prima esplorazione della voragine di Golgo, la Grotta del Fico è stata aperta al pubblico nell’agosto del 2003. Quando la grotta fu esplorata dal “Gruppo Pio XI” l’ingresso della cavità era presidiato da un magnifico albero di fico che ha dato il nome alla grotta. Purtroppo l’albero è stato travolto da una frana negli anni Ottanta, e oggi, a testimoniarne la passata presenza, restano solamente le lunghe radici che attraversano la sala principale, di fronte all’ingresso. Padre Furreddu, in collaborazione con l’ “Unione Speleologica di Bologna”, tornò più volte all’interno della “Grotta del Fico”, soprattutto perché da esperto studioso della foca monaca (scomparsa da queste acque negli anni Ottanta) si rese conto che questa cavità era ormai uno degli ultimi rifugi del pinnipede tipico del Mediterraneo. In occasione della spedizione del dicembre 1971 Padre Furreddu monitorò la situazione demografica delle foche monache della zona, arrivando alla conclusione che ormai lungo la costa non si contavano più di 5 o 6 esemplari. “Quest’ultima spedizione di controllo della durata di tre giorni - annotò Furreddu - ci ha procurato qualche difficoltà per le condizioni del mare, che nel giorno 30 [dicembre] erano proibitive, ed hanno impedito l’approdo del motoscafo con i rifornimenti. Ma proprio questo giorno ha registrato il maggior numero di foche all’interno della grotta, arrivando a 6 contemporaneamente per una decina di ore (…)”. Il prete speleologo poté studiare da vicino le foche poiché queste frequentavano assiduamente una sala della grotta collegata con l’esterno da un sifone lungo una decina di metri, il cui ingresso si trova 10 metri sotto il livello del mare. La “Sala delle foche” si può ammirare dall’alto, in tutta sicurezza, nel corso delle visite guidate che la “Società Speleologica Baunese” organizza ogni giorno da maggio a ottobre. Lungo la diramazione principale sono ancora leggibili le “firme” delle prime esplorazioni effettuate dal “Gruppo Pio XI” e dall’ “Unione Speleologica di Bologna”. Alcune diramazioni tuttora chiuse al pubblico, e accessibili solo se adeguatamente attrezzati, sono visitabili su prenotazione.
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Grotta del Fico
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Navigando verso nord, a circa un miglio di distanza dalla spiaggia di “Mudaloru”, si trova la “Grotta del Fico”, che si apre nella scogliera calcarea, a circa 10 metri di altezza sul livello del mare. Esplorata per la prima volta negli anni Sessanta dagli speleologi del “Gruppo Pio XI”, (sodalizio fondato dal prete speleologo Padre Antonio Furreddu, l’iniziatore della speleologia in Sardegna), lo stesso che partecipò alla prima esplorazione della voragine di Golgo, la Grotta del Fico è stata aperta al pubblico nell’agosto del 2003. Quando la grotta fu esplorata dal “Gruppo Pio XI” l’ingresso della cavità era presidiato da un magnifico albero di fico che ha dato il nome alla grotta. Purtroppo l’albero è stato travolto da una frana negli anni Ottanta, e oggi, a testimoniarne la passata presenza, restano solamente le lunghe radici che attraversano la sala principale, di fronte all’ingresso. Padre Furreddu, in collaborazione con l’ “Unione Speleologica di Bologna”, tornò più volte all’interno della “Grotta del Fico”, soprattutto perché da esperto studioso della foca monaca (scomparsa da queste acque negli anni Ottanta) si rese conto che questa cavità era ormai uno degli ultimi rifugi del pinnipede tipico del Mediterraneo. In occasione della spedizione del dicembre 1971 Padre Furreddu monitorò la situazione demografica delle foche monache della zona, arrivando alla conclusione che ormai lungo la costa non si contavano più di 5 o 6 esemplari. “Quest’ultima spedizione di controllo della durata di tre giorni - annotò Furreddu - ci ha procurato qualche difficoltà per le condizioni del mare, che nel giorno 30 [dicembre] erano proibitive, ed hanno impedito l’approdo del motoscafo con i rifornimenti. Ma proprio questo giorno ha registrato il maggior numero di foche all’interno della grotta, arrivando a 6 contemporaneamente per una decina di ore (…)”. Il prete speleologo poté studiare da vicino le foche poiché queste frequentavano assiduamente una sala della grotta collegata con l’esterno da un sifone lungo una decina di metri, il cui ingresso si trova 10 metri sotto il livello del mare. La “Sala delle foche” si può ammirare dall’alto, in tutta sicurezza, nel corso delle visite guidate che la “Società Speleologica Baunese” organizza ogni giorno da maggio a ottobre. Lungo la diramazione principale sono ancora leggibili le “firme” delle prime esplorazioni effettuate dal “Gruppo Pio XI” e dall’ “Unione Speleologica di Bologna”. Alcune diramazioni tuttora chiuse al pubblico, e accessibili solo se adeguatamente attrezzati, sono visitabili su prenotazione.
Subito dopo la “Grotta del Fico” le scogliere calcaree a strapiombo arretrano notevolmente dalla linea di costa e digradando verso il mare, lasciano spazio alla fitta macchia mediterranea della foresta di “Birìala”, da cui prende il nome la piccola spiaggia di origine franosa che si apre sotto una parete di arenaria. La spiaggia di “Cala Birìala” (chiamata “Birìola” dai pescatori di Cala Gonone) era una delle spiagge più frequentate dalle foche monache, insieme a quella di Ispuligidenie - Cala Mariolu, al punto che una piccola insenatura tra gli scogli a sud dell’arenile viene chiamata dai pescatori “Calettino delle foche”. Di recente invenzione è invece un altro toponimo, “Le Piscine di Venere”, con cui viene chiamato lo specchio d’acqua dai riflessi smeraldo compreso tra il “Calettino delle Foche” e la scogliera di “Bilariccòro”. Un piccolo arco di roccia incastonato tra gli scogli che chiudono l’arenile a sud impreziosisce la spiaggia di “Cala Birìala”, raggiungibile anche a piedi dall’entroterra, meglio se in compagnia delle guide locali, che nella foresta di Biriàla fanno tappa anche per mostrare i resti di una dispensa dei carbonai toscani. Anche questa zona, infatti, ha avuto un ruolo importante all’epoca dei “furisteris”, che qui tra l’altro, avevano realizzato anche una mulattiera che metteva in collegamento il piccolo bosco di Bilariccòro con l’estesa foresta di Biriala (chiamata anche “Su Saltu Mannu”, “il territorio grande”). Oggi di quella mulattiera un tempo percorsa dai carbonai e dai loro infaticabili muli non resta traccia. Furono oggetto delle attenzioni dei “furisteris” toscani anche i due boschi, “Isùili” e “Orronnòro”, che si trovano subito a nord di Biriala e che vengono attraversati dagli escursionisti che affrontano il “Selvaggio Blu”, nella tappa che si conclude a Cala Sisine (e che prevede anche alcune calate in corda di quaranta-cinquanta metri). Da queste parti, oltre ai resti della dispensa, i carbonai hanno lasciato altre tracce affascinanti, come, ad esempio, la una scala in metallo realizzata con dei pioli conficcati nella parete rocciosa a picco sul mare. Per ammirare questo singolare reperto è necessario costeggiare la parete calcarea partendo dalla spiaggia in direzione nord. Dopo circa trecento metri, nella scogliera appare quella che è ormai nota come “la scala di Birìala”, la lunga serie di pioli in metallo che consentiva ai marinai di risalire la parete dopo aver assicurato le imbarcazioni a due poderose anelle, ancora oggi visibili ai lati della scala. Gli evidenti effetti devastanti della ruggine, che nei decenni ha corroso numerosi pioli della scala metallica, sconsigliano vivamente di utilizzarla per risalire la parete.
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Cala Birìala
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Subito dopo la “Grotta del Fico” le scogliere calcaree a strapiombo arretrano notevolmente dalla linea di costa e digradando verso il mare, lasciano spazio alla fitta macchia mediterranea della foresta di “Birìala”, da cui prende il nome la piccola spiaggia di origine franosa che si apre sotto una parete di arenaria. La spiaggia di “Cala Birìala” (chiamata “Birìola” dai pescatori di Cala Gonone) era una delle spiagge più frequentate dalle foche monache, insieme a quella di Ispuligidenie - Cala Mariolu, al punto che una piccola insenatura tra gli scogli a sud dell’arenile viene chiamata dai pescatori “Calettino delle foche”. Di recente invenzione è invece un altro toponimo, “Le Piscine di Venere”, con cui viene chiamato lo specchio d’acqua dai riflessi smeraldo compreso tra il “Calettino delle Foche” e la scogliera di “Bilariccòro”. Un piccolo arco di roccia incastonato tra gli scogli che chiudono l’arenile a sud impreziosisce la spiaggia di “Cala Birìala”, raggiungibile anche a piedi dall’entroterra, meglio se in compagnia delle guide locali, che nella foresta di Biriàla fanno tappa anche per mostrare i resti di una dispensa dei carbonai toscani. Anche questa zona, infatti, ha avuto un ruolo importante all’epoca dei “furisteris”, che qui tra l’altro, avevano realizzato anche una mulattiera che metteva in collegamento il piccolo bosco di Bilariccòro con l’estesa foresta di Biriala (chiamata anche “Su Saltu Mannu”, “il territorio grande”). Oggi di quella mulattiera un tempo percorsa dai carbonai e dai loro infaticabili muli non resta traccia. Furono oggetto delle attenzioni dei “furisteris” toscani anche i due boschi, “Isùili” e “Orronnòro”, che si trovano subito a nord di Biriala e che vengono attraversati dagli escursionisti che affrontano il “Selvaggio Blu”, nella tappa che si conclude a Cala Sisine (e che prevede anche alcune calate in corda di quaranta-cinquanta metri). Da queste parti, oltre ai resti della dispensa, i carbonai hanno lasciato altre tracce affascinanti, come, ad esempio, la una scala in metallo realizzata con dei pioli conficcati nella parete rocciosa a picco sul mare. Per ammirare questo singolare reperto è necessario costeggiare la parete calcarea partendo dalla spiaggia in direzione nord. Dopo circa trecento metri, nella scogliera appare quella che è ormai nota come “la scala di Birìala”, la lunga serie di pioli in metallo che consentiva ai marinai di risalire la parete dopo aver assicurato le imbarcazioni a due poderose anelle, ancora oggi visibili ai lati della scala. Gli evidenti effetti devastanti della ruggine, che nei decenni ha corroso numerosi pioli della scala metallica, sconsigliano vivamente di utilizzarla per risalire la parete.
Cala Sisine è, senza dubbio, insieme alla più famosa Cala Luna, una delle spiagge più interessanti della costa di Baunei, sia per le dimensioni (è profonda oltre 100 metri e lunga circa 500), che ne fanno l’arenile più spazioso in assoluto della costa, sia per la particolare storia idrogeologica, dato che a quanto risulta, fino a metà Ottocento, la spiaggia non esisteva. Incastonata tra il promontorio roccioso di “Punta Plummare” (415 metri) e la costa di “Dolài”, la spiaggia è infatti il risultato dell’accumulo di detriti rocciosi alla foce di un torrente, la “Codula di Sisine”, che ogni anno, in occasione delle piogge invernali, quando si ingrossa in modo significativo, trascina a valle tutto ciò che incontra lungo il suo percorso dall’altopiano di Golgo sino al mare. La certezza che la spiaggia attuale è il risultato di straordinarie alluvioni posteriori al 1850 si deve al fatto che le carte del “Catasto La Marmora - De Candia”, datate 1849 e conservate nell’Archivio di Stato di Cagliari, rivelano che a quel tempo Cala Sisine si presentava come un’insenatura che penetrava nella linea di costa per centinaia di metri: un vero e proprio porto naturale. Nei decenni successivi, alluvioni simili a quella che nel novembre 2008 ha creato la spiaggia di Mudaloru hanno fatto avanzare progressivamente la linea di costa, fino ad unire i due promontori di Plummàre e Dolài. Una interessante riproduzione della carta ottocentesca dove si distingue nettamente il profilo della oggi interrata insenatura di Sisine, si può osservare nella sala del “Centro di Documentazione” di Baunei dedicata al “Catasto La Marmora - De Candia”. Tra Ottocento e Novecento anche l’entroterra di Sisine ha conosciuto l’intervento dei carbonai, che a poca distanza dalla spiaggia da cui veniva imbarcato il carbone costruirono una dispensa simile a quella di Birìala. Sulle rovine di questa dispensa, nel 1977, è stato realizzato il punto di ristoro “Su Coile”, che nell’edificio principale si rifà architettonicamente alla struttura della tradizionale capanna degli ovili baunesi. Sempre in quegli anni fu attrezzato un campeggio nel boschetto vicino alla spiaggia, letteralmente spazzato via da alcune alluvioni negli anni Novanta. Cala Sisine è raggiungibile anche via terra partendo dall’altopiano di Golgo, seguendo la strada sterrata che si dirama verso destra 200 metri prima della Chiesa di San Pietro. Da questo punto in poi la strada costeggia per lunghi tratti la “Codula” sino allo spiazzo-parcheggio di “Planu ’e Murta” (“il pianoro del mirto”), dove inizia un sentiero che in circa mezz’ora (poco più di un km di cammino) porta alla spiaggia.
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Cala Sisine
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Cala Sisine è, senza dubbio, insieme alla più famosa Cala Luna, una delle spiagge più interessanti della costa di Baunei, sia per le dimensioni (è profonda oltre 100 metri e lunga circa 500), che ne fanno l’arenile più spazioso in assoluto della costa, sia per la particolare storia idrogeologica, dato che a quanto risulta, fino a metà Ottocento, la spiaggia non esisteva. Incastonata tra il promontorio roccioso di “Punta Plummare” (415 metri) e la costa di “Dolài”, la spiaggia è infatti il risultato dell’accumulo di detriti rocciosi alla foce di un torrente, la “Codula di Sisine”, che ogni anno, in occasione delle piogge invernali, quando si ingrossa in modo significativo, trascina a valle tutto ciò che incontra lungo il suo percorso dall’altopiano di Golgo sino al mare. La certezza che la spiaggia attuale è il risultato di straordinarie alluvioni posteriori al 1850 si deve al fatto che le carte del “Catasto La Marmora - De Candia”, datate 1849 e conservate nell’Archivio di Stato di Cagliari, rivelano che a quel tempo Cala Sisine si presentava come un’insenatura che penetrava nella linea di costa per centinaia di metri: un vero e proprio porto naturale. Nei decenni successivi, alluvioni simili a quella che nel novembre 2008 ha creato la spiaggia di Mudaloru hanno fatto avanzare progressivamente la linea di costa, fino ad unire i due promontori di Plummàre e Dolài. Una interessante riproduzione della carta ottocentesca dove si distingue nettamente il profilo della oggi interrata insenatura di Sisine, si può osservare nella sala del “Centro di Documentazione” di Baunei dedicata al “Catasto La Marmora - De Candia”. Tra Ottocento e Novecento anche l’entroterra di Sisine ha conosciuto l’intervento dei carbonai, che a poca distanza dalla spiaggia da cui veniva imbarcato il carbone costruirono una dispensa simile a quella di Birìala. Sulle rovine di questa dispensa, nel 1977, è stato realizzato il punto di ristoro “Su Coile”, che nell’edificio principale si rifà architettonicamente alla struttura della tradizionale capanna degli ovili baunesi. Sempre in quegli anni fu attrezzato un campeggio nel boschetto vicino alla spiaggia, letteralmente spazzato via da alcune alluvioni negli anni Novanta. Cala Sisine è raggiungibile anche via terra partendo dall’altopiano di Golgo, seguendo la strada sterrata che si dirama verso destra 200 metri prima della Chiesa di San Pietro. Da questo punto in poi la strada costeggia per lunghi tratti la “Codula” sino allo spiazzo-parcheggio di “Planu ’e Murta” (“il pianoro del mirto”), dove inizia un sentiero che in circa mezz’ora (poco più di un km di cammino) porta alla spiaggia.
Nell’entroterra di Cala Sisine, a circa un’ora di cammino dalla spiaggia, si trova una grotta molto suggestiva, che già dal nome rivela caratteristiche molto particolari: è infatti chiamata la “Grotta del Miracolo” (“Su Meraculu”, in sardo). Con tutta probabilità il nome si deve alla presenza di migliaia di “stalattiti eccentriche”, così chiamate perché crescono in modo del tutto irregolare (e in evidente contrasto con la legge di gravità), diramandosi verso tutte le direzioni, sia verso l’alto che orizzontalmente. Secondo molti geologi (anche se va detto non c’è ancora una spiegazione unanimemente accettata dagli studiosi), il bizzarro comportamento delle “stalattiti eccentriche” si deve a complessi fenomeni legati alla pressione idrostatica e alla capillarità. Perché si sviluppi una “eccentrica”, cioè’, il flusso d’acqua che le alimenta deve essere lentissimo e deve avvenire per porosità (e non per normale gocciolamento), così da diffondersi per capillarità sulla superficie della concrezione. Agli occhi dei pastori del Supramonte baunese, che frequentavano questa grotta soprattutto perché al suo interno si trova una preziosa sorgente d’acqua dolce, queste concrezioni dovevano apparire come un vero e proprio “miracolo della natura”, da cui il nome “Grotta del Miracolo”. La spettacolare spelonca si compone di diversi ambienti, tra cui spicca il camerone centrale (che si raggiunge superando una strettoia lunga pochi metri) decorato da migliaia di stalattiti eccentriche che ricoprono il soffitto. Proseguendo oltre, per circa trenta metri, si arriva al piccolo ambiente dove sgorga la sorgente d’acqua dolce. L’altezza media degli ambienti più ampi è di circa 5-6 metri. La temperatura media all’interno della grotta è di circa 17° C, mentre l’umidità sfiora l’80%. La parte sinora esplorata misura oltre 200 metri. Per lungo tempo nota solamente ai pastori che frequentavano la zona, la grotta è stata aperta al pubblico nel 2001 grazie all’iniziativa di alcuni giovani che pensarono di inserire la visita guidata della grotta in un’escursione naturalistica che partendo dalla spiaggia di Cala Sisine consente di apprezzare in poche ore le peculiarità principali del territorio baunese. L’ingresso della cavità si trova in un costone roccioso a 300 metri di altitudine, e ci si può arrivare anche dall’entroterra, percorrendo la strada sterrata che dall’altopiano di Golgo costeggia il letto della “Codula di Sisine” sino allo spiazzo di “Planu ’e Murta”, dove comincia il sentiero che porta alla spiaggia.
Grotta del Miracolo
Nell’entroterra di Cala Sisine, a circa un’ora di cammino dalla spiaggia, si trova una grotta molto suggestiva, che già dal nome rivela caratteristiche molto particolari: è infatti chiamata la “Grotta del Miracolo” (“Su Meraculu”, in sardo). Con tutta probabilità il nome si deve alla presenza di migliaia di “stalattiti eccentriche”, così chiamate perché crescono in modo del tutto irregolare (e in evidente contrasto con la legge di gravità), diramandosi verso tutte le direzioni, sia verso l’alto che orizzontalmente. Secondo molti geologi (anche se va detto non c’è ancora una spiegazione unanimemente accettata dagli studiosi), il bizzarro comportamento delle “stalattiti eccentriche” si deve a complessi fenomeni legati alla pressione idrostatica e alla capillarità. Perché si sviluppi una “eccentrica”, cioè’, il flusso d’acqua che le alimenta deve essere lentissimo e deve avvenire per porosità (e non per normale gocciolamento), così da diffondersi per capillarità sulla superficie della concrezione. Agli occhi dei pastori del Supramonte baunese, che frequentavano questa grotta soprattutto perché al suo interno si trova una preziosa sorgente d’acqua dolce, queste concrezioni dovevano apparire come un vero e proprio “miracolo della natura”, da cui il nome “Grotta del Miracolo”. La spettacolare spelonca si compone di diversi ambienti, tra cui spicca il camerone centrale (che si raggiunge superando una strettoia lunga pochi metri) decorato da migliaia di stalattiti eccentriche che ricoprono il soffitto. Proseguendo oltre, per circa trenta metri, si arriva al piccolo ambiente dove sgorga la sorgente d’acqua dolce. L’altezza media degli ambienti più ampi è di circa 5-6 metri. La temperatura media all’interno della grotta è di circa 17° C, mentre l’umidità sfiora l’80%. La parte sinora esplorata misura oltre 200 metri. Per lungo tempo nota solamente ai pastori che frequentavano la zona, la grotta è stata aperta al pubblico nel 2001 grazie all’iniziativa di alcuni giovani che pensarono di inserire la visita guidata della grotta in un’escursione naturalistica che partendo dalla spiaggia di Cala Sisine consente di apprezzare in poche ore le peculiarità principali del territorio baunese. L’ingresso della cavità si trova in un costone roccioso a 300 metri di altitudine, e ci si può arrivare anche dall’entroterra, percorrendo la strada sterrata che dall’altopiano di Golgo costeggia il letto della “Codula di Sisine” sino allo spiazzo di “Planu ’e Murta”, dove comincia il sentiero che porta alla spiaggia.
Un laghetto d’acqua dolce che separa l’arenile sabbioso dal terreno retrostante, il boschetto di oleandri che incornicia la spiaggia, e quel nome suggestivo che evoca romantiche luminescenze lunari. Una spiaggia, quella di Cala Luna, che già al primo sguardo dimostra di meritarsi pienamente la definizione di “Perla del Mediterraneo”, che spesso la accompagna nelle descrizioni turistico - promozionali della costa. Qui, in questo fiabesco arenile, il territorio di Baunei confina con quello di Dorgali, fatto che al visitatore poco addentro alle sarde vicende appare strano, dato che la frazione costiera di Dorgali, Cala Gonone, dista appena 7 km da Cala Luna, mentre S. Maria Navarrese, la frazione di Baunei, si trova 40 km a sud. Secondo alcuni studiosi questa situazione è facilmente spiegabile se si accetta l’ipotesi che Dorgali sia stata fondata da pastori baunesi. Questa teoria è riportata anche dall’Angius, che descrivendo usi e costumi dei dorgalesi annotava: “Vuolsi pure che questi coloni venissero dal vicino territorio della Ugliastra, o da Baunèi, o da Ursulè,(…)”. Un altro particolare interessante riguarda la storia del nome dell’arenile. Non tutti sanno infatti che il poetico nome di “Cala Luna” è percepito dalla popolazioni locali come una vera e propria storpiatura del toponimo in sardo, che a Baunei suona come Cala “Elùne”, e a Dorgali come Cala “Ilùne”. Pare che la “romantica” deformazione si debba ai geografi arrivati dal Piemonte nell’Ottocento con l’incarico di aggiornare la cartografia del “Regno di Sardegna”. E così Cala “Elùne” diventò “Cala Luna” come, per esempio, il “Golfo de li ranci”, (“Golfo dei granchi” secondo i pescatori) nei pressi di Olbia, divenne “Golfo Aranci”, e l’isola “de Malu Entu” (“del cattivo vento”), nel Canale di Sardegna, divenne l’isola “di Mal di Ventre”. Anche a Cala Luna, come a Cala Sisine, si trova un punto di ristoro ricavato (nel 1978) sulle rovine della dispensa dei carbonai, il cui nome, “Su Neulagi” (“l’oleandro”, in sardo) è una sorta di omaggio al boschetto che si specchia nel laghetto di acqua dolce. Nel 1974 questo spettacolare scenario attirò l’attenzione della regista Lina Wertmuller, che decise di girare a Cala Luna alcune scene dell’indimenticabile “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini. Un film che in qualche modo, nel chilometrico titolo, sembrava preconizzare “l’insolito destino” del territorio di Baunei e S. Maria Navarrese: un territorio che in pochi decenni, da depressa terra di pastori-contadini, si è ritrovato ad essere una delle più attraenti mete turistiche di tutta la Sardegna.
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Cala Luna
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Un laghetto d’acqua dolce che separa l’arenile sabbioso dal terreno retrostante, il boschetto di oleandri che incornicia la spiaggia, e quel nome suggestivo che evoca romantiche luminescenze lunari. Una spiaggia, quella di Cala Luna, che già al primo sguardo dimostra di meritarsi pienamente la definizione di “Perla del Mediterraneo”, che spesso la accompagna nelle descrizioni turistico - promozionali della costa. Qui, in questo fiabesco arenile, il territorio di Baunei confina con quello di Dorgali, fatto che al visitatore poco addentro alle sarde vicende appare strano, dato che la frazione costiera di Dorgali, Cala Gonone, dista appena 7 km da Cala Luna, mentre S. Maria Navarrese, la frazione di Baunei, si trova 40 km a sud. Secondo alcuni studiosi questa situazione è facilmente spiegabile se si accetta l’ipotesi che Dorgali sia stata fondata da pastori baunesi. Questa teoria è riportata anche dall’Angius, che descrivendo usi e costumi dei dorgalesi annotava: “Vuolsi pure che questi coloni venissero dal vicino territorio della Ugliastra, o da Baunèi, o da Ursulè,(…)”. Un altro particolare interessante riguarda la storia del nome dell’arenile. Non tutti sanno infatti che il poetico nome di “Cala Luna” è percepito dalla popolazioni locali come una vera e propria storpiatura del toponimo in sardo, che a Baunei suona come Cala “Elùne”, e a Dorgali come Cala “Ilùne”. Pare che la “romantica” deformazione si debba ai geografi arrivati dal Piemonte nell’Ottocento con l’incarico di aggiornare la cartografia del “Regno di Sardegna”. E così Cala “Elùne” diventò “Cala Luna” come, per esempio, il “Golfo de li ranci”, (“Golfo dei granchi” secondo i pescatori) nei pressi di Olbia, divenne “Golfo Aranci”, e l’isola “de Malu Entu” (“del cattivo vento”), nel Canale di Sardegna, divenne l’isola “di Mal di Ventre”. Anche a Cala Luna, come a Cala Sisine, si trova un punto di ristoro ricavato (nel 1978) sulle rovine della dispensa dei carbonai, il cui nome, “Su Neulagi” (“l’oleandro”, in sardo) è una sorta di omaggio al boschetto che si specchia nel laghetto di acqua dolce. Nel 1974 questo spettacolare scenario attirò l’attenzione della regista Lina Wertmuller, che decise di girare a Cala Luna alcune scene dell’indimenticabile “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini. Un film che in qualche modo, nel chilometrico titolo, sembrava preconizzare “l’insolito destino” del territorio di Baunei e S. Maria Navarrese: un territorio che in pochi decenni, da depressa terra di pastori-contadini, si è ritrovato ad essere una delle più attraenti mete turistiche di tutta la Sardegna.
Il nome di questa piccola grotta nascosta nel costone ai piedi di “Montargia”, il bastione calcareo che sovrasta la parte alta del centro abitato di Baunei (il rione chiamato “Bidda ’e Susu”, letteralmente “Paese di sopra”) ricalca pari pari l’appellativo di tante altre cavità dell’Isola che la tradizione popolare ha sempre circondato di un alone di mistero. Infatti, così come “Grutta ’e Janas” in sardo significa “grotta delle fate, delle streghe”, allo stesso modo le necropoli prenuragiche scavate nella roccia, presenti in tutte le zone della Sardegna, vengono chiamate “Domus de Janas” (“case delle fate, delle streghe”). Oggi per gli archeologi il mistero della funzione delle “Domus de Janas” è stato abbondantemente svelato, anche se rimangono ancora misteriosi alcuni aspetti dei rituali funerari e della religiosità prenuragica. “Grutta ’e Janas” è aperta al pubblico (è stato creato un sentiero di accesso, alla base della parete di “Montargia”) e merita di essere inserita in una guida storico - turistica per il suo particolare pavimento stalagmitico, leggermente inclinato, decorato con un motivo molto articolato e di incerta interpretazione. Si tratta di una raffigurazione costituita da un totale di 18 canalette poco profonde che si diramano da una conca principale profonda alcuni centimetri, per congiungersi a varie coppelle terminali disposte senza apparente criterio. Proprio per le caratteristiche peculiari del motivo scavato nel pavimento, la grotta è stata oggetto nel 2005 di una campagna di scavi archeologici condotta sotto la direzione dell’archeologa Maria Ausilia Fadda. In occasione di questo intervento la zona è stata recintata e nel cancello di ingresso al sito sono stati apposti alcuni cartelli esplicativi sulle caratteristiche più importanti di “Grutta ’e Janas”. I testi, firmati dalla Fadda spiegano che “la grotta si contraddistingue per la presenza di un’articolata raffigurazione incisa, riferibile al Neolitico finale (4000-3200 a.C.) usata probabilmente per riti propiziatori legati alla fertilità”. Incisioni simili sono state scoperte e studiate anche in Piemonte e Liguria, analogie che sempre secondo la Fadda “potrebbero confermare ulteriormente i forti legami dell’area continentale con la Sardegna, che esportava l’ossidiana dei ricchissimi giacimenti del Monte Arci fin nel sud della Francia. Questi contatti di carattere commerciale hanno fortemente influenzato la produzione di manufatti ceramici, come i vasi a bocca quadrata, molto simili a quelli di produzione ligure, e i vasi con superfici lavorate a stralucido, come quelli del Midi francese”.
Grutta e Janas - Sito Archeologico
Via Giosuè Carducci
Il nome di questa piccola grotta nascosta nel costone ai piedi di “Montargia”, il bastione calcareo che sovrasta la parte alta del centro abitato di Baunei (il rione chiamato “Bidda ’e Susu”, letteralmente “Paese di sopra”) ricalca pari pari l’appellativo di tante altre cavità dell’Isola che la tradizione popolare ha sempre circondato di un alone di mistero. Infatti, così come “Grutta ’e Janas” in sardo significa “grotta delle fate, delle streghe”, allo stesso modo le necropoli prenuragiche scavate nella roccia, presenti in tutte le zone della Sardegna, vengono chiamate “Domus de Janas” (“case delle fate, delle streghe”). Oggi per gli archeologi il mistero della funzione delle “Domus de Janas” è stato abbondantemente svelato, anche se rimangono ancora misteriosi alcuni aspetti dei rituali funerari e della religiosità prenuragica. “Grutta ’e Janas” è aperta al pubblico (è stato creato un sentiero di accesso, alla base della parete di “Montargia”) e merita di essere inserita in una guida storico - turistica per il suo particolare pavimento stalagmitico, leggermente inclinato, decorato con un motivo molto articolato e di incerta interpretazione. Si tratta di una raffigurazione costituita da un totale di 18 canalette poco profonde che si diramano da una conca principale profonda alcuni centimetri, per congiungersi a varie coppelle terminali disposte senza apparente criterio. Proprio per le caratteristiche peculiari del motivo scavato nel pavimento, la grotta è stata oggetto nel 2005 di una campagna di scavi archeologici condotta sotto la direzione dell’archeologa Maria Ausilia Fadda. In occasione di questo intervento la zona è stata recintata e nel cancello di ingresso al sito sono stati apposti alcuni cartelli esplicativi sulle caratteristiche più importanti di “Grutta ’e Janas”. I testi, firmati dalla Fadda spiegano che “la grotta si contraddistingue per la presenza di un’articolata raffigurazione incisa, riferibile al Neolitico finale (4000-3200 a.C.) usata probabilmente per riti propiziatori legati alla fertilità”. Incisioni simili sono state scoperte e studiate anche in Piemonte e Liguria, analogie che sempre secondo la Fadda “potrebbero confermare ulteriormente i forti legami dell’area continentale con la Sardegna, che esportava l’ossidiana dei ricchissimi giacimenti del Monte Arci fin nel sud della Francia. Questi contatti di carattere commerciale hanno fortemente influenzato la produzione di manufatti ceramici, come i vasi a bocca quadrata, molto simili a quelli di produzione ligure, e i vasi con superfici lavorate a stralucido, come quelli del Midi francese”.

Offerta gastronomica

ottima pizza
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Bar Ristorante Pizzeria Pisaneddu
Strada Statale 125 Orientale Sarda
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ottima pizza
Bar Pizzeria San Pietro
224 SS 125 Orientale Sarda
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Ristorante Golgo
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MeC Puddu's
8 Viale Plammas
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L'Olivastro
1 Lungomare Monte Santo
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Ittiturismo La Peschiera
Via Riva di Ponente
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Tomà Ristorante
11 Lungomare Monte Santo
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